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Crisi della democrazia partecipata e democrazia diretta


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Riportiamo alcuni passi di un'intervista concessa a Francesco Anfossi da Giuseppe De Rita e pubblicata sull'ultimo numero di Famiglia Cristiana. La relazione tra democrazia diretta e crisi della democrazia partecipata meriterebbe una riflessione ed un dibattito tra noi liberali, perchè le argomentazioni di De Rita sono sicuramente interessanti e pregevoli, ma non esauriscono l'analisi ed il giudizio sullo stato della politica in Italia

UN PAESE SVUOTATO

Istituzioni ridotte a scatole vuote, personalismo esasperato, populismo a tutti i livelli, debolezza della classe dirigente. È l’impietoso scenario disegnato dal segretario generale del Censis. Che a proposito di Berlusconi e Prodi prevede...

... Nel paesaggio istituzionale che (De Rita) ci dipinge abbonda con le tinte fosche, tutto ombre e luci peggio di un Caravaggio: dalla scomparsa dei grand commis che tenevano in piedi il Paese, vittime dello spoil system, «di coloro che dicono: siccome siamo al potere mettiamo i nostri dirigenti», alle strutture pubbliche «condannate o a non contare nulla rispetto allo strapotere del denaro, o a essere distorte a fini privati».

Tutto questo può essere sintetizzato con un solo concetto: crisi della democrazia partecipata. Lui, che si definisce «più guelfo che ghibellino», parla di «tradimento dei chierici», dove i chierici sono «tutti coloro che le istituzioni le abitano e dovrebbero servirle invece di servirsene». Un’altra boccata dal sigaro, un’altra nuvoletta di fumo ed ecco condensarsi i protagonisti del potere di oggi, con il loro personalismo, tutti quei «Perón, anzi "peroncini", di destra o sinistra, che ci guardano dalla cima come dei faraoni». Col rischio che chi comanda si trovi in cima a una piramide che non c’è più: «Perché i comportamenti individuali della gente si aggregano in dinamiche orizzontali e non gerarchiche: se qualcuno pensa di comandare dalla cima di una piramide rischia di ritrovarsi come lo stilita sulla colonna: sia essa bassa o alta, intorno c’è il vuoto».

Che ne pensa dell’ondata che ha invaso Roma il 15 febbraio scorso in nome della pace?

«È un fatto nuovo, ma può essere anche il frutto perverso della democrazia diretta, dove chi conta è il popolo».

E non va bene?

«Il rischio è altissimo. La democrazia diretta è quella che fa eleggere il Berlusconi di turno dal popolo. Per cui Berlusconi dice: io sono stato eletto dal popolo e dunque ho franchigia giudiziaria, i parlamentari sono stati eletti al mio seguito e fanno quello che io voglio, e via di questo passo. Silvio Berlusconi fa il capopopolo».

Ma che c’entra la folla del 15 febbraio con il "capopopolo" Berlusconi?

«Mi lasci finire. D’altra parte coloro che non hanno eletto il capopopolo (perché nella democrazia diretta non hai altra possibilità, non puoi andare a fare opposizione al partito, in consiglio comunale, al sindacato eccetera) devono rassegnarsi a fare il popolo in piazza. Sa chi l’ha capito molto bene questo?».

Chi l’ha capito?

«Bertinotti. L’ho sentito alla radio. Lui dice: c’è una trasformazione strutturale in Italia; oggi vale il popolo e quindi noi dobbiamo coltivare il popolo, con le sue emozioni, fino in fondo, dobbiamo in qualche modo far fruttare questa dimensione di popolo perché è il nostro modo di far politica. Nei fatti è speculare a Berlusconi. Identico! In questi dieci anni, diciamo da Segni in poi, tutto è stato legato alla democrazia diretta. È stata un’escalation. Fra un po’ eleggeremo direttamente anche il capo dei pompieri».

Ma una manifestazione del genere non è anche l’espressione di una democrazia che sale dal basso?

«No, perché la democrazia dal basso è un meccanismo di partecipazione, non un meccanismo di esplicitazione dei sentimenti. Vede, io non ho nulla contro i sentimenti. Mi ritengo umanamente molto sentimentale, così come cerco di essere un buon cattolico. Ma quello che mi spaventa della piazza non è il sentimento, ma la procedura di popolo. Perché il popolo è sempre indistinto: il popolo che ha votato Berlusconi ha votato in modo indistinto. Non ha votato perché faceva un scelta di classe, di programma eccetera. Ma anche il popolo di Cofferati è indistinto. Cofferati parla sempre di diritti: dei lavoratori, delle donne, dei bambini... Ma diritti "de che"? Tutti abbiamo diritti. Ovvio. Elencarli non serve. Se non a tenere insieme un popolo indistinto».

Ma in questo caso si parla di pace.

«La pace è una cosa nobile. Ma poi bisogna andare oltre. Questa gente va in marcia per dire: ci sono. E poi? Specialmente noi cattolici sui valori dobbiamo testimoniare. Ma testimoniare è condensazione politica di un popolo, significa articolare, differenziare nelle varie istituzioni e nelle altre organizzazioni della società civile. Come diceva Andreatta, la civiltà è differenziazione. Il popolo non si articola. Al massimo dice: ci sono. Questo per noi cattolici è importante. O noi viviamo la dimensione di distinzione, di coagulo intermedio, oppure lasciamo il popolo nell’indistinto, rischiando di perderne la guida nei processi politici. La storia stessa è fatta di logiche distinte. Lo si vede in quel bellissimo libriccino di Andrea Riccardi su De Gasperi e Pio XII nel ’52, al tempo dell’operazione Sturzo. Lì si avverte chiaramente la bellezza del pensiero di De Gasperi che spiega al Papa che la politica è distinzione. Pio XII vorrebbe un blocco unico, destra compresa, contro il comunismo. De Gasperi no, lui articola: preferisce fare l’alleanza con i repubblicani e i liberali, che sono diversi da lui. Così mantiene la sua distinzione! Non fa il popolo cattolico che scende in piazza. Anche la sinistra deve fare coagulo se vuol salvarsi. Altrimenti l’indistinto sfarina pure Fassino, D’Alema e compagni».

I cattolici in marcia rispondevano ai ripetuti appelli per la pace in Irak di Giovanni Paolo II.

«Su questo siamo tutti d’accordo. Ma anche il Papa, dopo gli appelli, ha un suo reticolato diplomatico che agisce in modo differenziato. È la forza della Chiesa. Fermarsi alle marce non contribuisce allo sviluppo democratico».

Lei cita spesso la teoria dei "due popoli" di un libro di Giulio Bollati.

«Bollati riporta una frase di De Bosis che asseriva che "il primo popolo sfanga la vita nel lavoro quotidiano", il secondo popolo "pensa il sentimento del primo, e quindi ne è il legittimo sovrano", cioè si arroga il diritto di fare quello che il primo popolo non vuole».

Non è quello che rischia il popolo italiano con l’entrata in guerra? C’è una élite che si arroga il potere di mandarci dove non vogliamo andare...

«Sì. Anche se il primo popolo è quello che ha vinto, dal Dopoguerra agli anni ’90, perché è rimasto differenziato: coltivatori, braccianti, ceto medio. Solo negli anni ’90 il popolo è diventato indistinto. C’è stato un grande imborghesimento, come diceva Pasolini, ma non siamo diventati borghesi. Berlusconi non ha creato questo popolo indistinto: se lo è trovato e lo usa».

Il Cavaliere, espressione di un’élite che domina il popolo?

«No, in Italia non c’è un’élite. Ci sono due derive populiste, due gruppi di Perón, anzi di "peroncini", che solleticano un popolo indistinto. Lo stesso Berlusconi è un capo-azienda che trasferisce logiche aziendali alla politica. L’ultima élite italiana è stata quella dei cattolici dossettiani in senso lato, gli uomini dell’Iri, dell’Eni, i Mattioli, i Saraceno, i Mattei, coloro che hanno immaginato lo Stato come soggetto dello sviluppo».

Che succederà se il premier dovesse essere condannato nel processo che lo vede implicato?

«I problemi di Berlusconi non sono giudiziari. I suoi problemi sono dovuti alla consapevolezza del fatto che l’elettorato potrebbe rimanere deluso. Finora si è distratto per fattori esterni: la crisi, la guerra. Ma poi? Se gli scoppiano i conti pubblici? Prima che arrivi questa delusione lui potrebbe portare il Paese alle elezioni anticipate. Quanto ai guai giudiziari, non credo che si arriverà a quello. Anche perché se i giudici gli dovessero dare eccessivo fastidio lui comincerebbe a tirare in ballo il suo vero avversario politico: Romano Prodi. Aspettiamoci un’operazione di cecchinaggio su Prodi da qui a breve».


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