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Manlio Cancogni si racconta

Inserito da: Corrado Benigni

Data pubblicazione: 24.09.2003 14:11


La Redazione di Liberali.net ringrazia l'amico Corrado Benigni che, con squisita cortesia, ha autorizzato la pubblicazione dell'intervista a lui rilasciata dallo scrittore Manlio Cancogni. L'intervista è stata pubblicata su "L'Eco di Bergamo" del 13 settembre scorso. In essa c'è anche il ricordo della "Battaglia di Firenze" del 1944, cui Liberali.net dedica un capitolo nella "Storia dei Liberali".

Intervista a Manlio Cancogni
di Corrado Benigni

Racconto autobiografico, memoriale, ma anche romanzo di formazione e libro di storia contemporanea. Questa l’ultima fatica letteraria di Manlio Cancogni, dal titolo: Gli scervellati. La seconda guerra mondiale nei ricordi di uno di loro (Diabasis). Un viaggio dentro gli anni della guerra, nel ricordo di chi quel periodo l’ ha vissuto sulla propria pelle, a contatto con i protagonisti del mondo intellettuale italiano di allora, come: Eugenio Montale, Umberto Saba, Ottone Rosai e Carlo Levi.
Forse tra le pagine più belle che Cancogni abbia scritto, questo libro è una testimonianza preziosa di quella che è stata la sua generazione, nata negli anni ’10. O meglio, quella parte di generazione che, per scelta intellettuale, fu anti-italiana e anti-patriottica, ma che forse meglio di altre ha saputo esprimere tutta la propria italianità, con i suoi pregi e i suoi difetti.

Manlio Cancogni
La bellezza di questo libro, oltre che nella scrittura, precisa e levigata, che ha fatto di Cancogni uno dei più interessanti scrittori della sua generazione, sta anche nel modo in cui è riuscito a narrare questa lunga storia. E cioè l’onestà, lucida e a volte spietata, con cui ha rievocato eventi, luoghi, personaggi, ma anche incoerenze, piccoli e grandi egoismi che lo stesso autore ha vissuto e che senza mezze misure ha saputo confessare. E l’onestà per uno scrittore – come diceva Hemingway - è certamente il traguardo più alto, e per questo più difficile, da raggiungere.
Gli scervellati si aggiunge ad una produzione letteraria lunghissima, iniziata nel 1956 con il romanzo La carriera di Pimlico.
«Ho iniziato a scrivere questo libro – dice l’autore - a New York, quasi per distrazione, appuntandolo a mano su un quaderno. Ed è stato questo editore a volerlo pubblicare. Io avevo già messo da parte l’idea».

Cominciamo dal titolo. Perché Gli scervellati?
«Les écervelés era il nome che avevano gli esuli francesi che allo scoppio della Rivoluzione scapparono in territorio tedesco, nei principati della Renania, e lì cominciarono a fare guerra alla Francia, cioè incitavano i re di Prussia e l’imperatore d’Austria a combattere contro il loro stesso Paese. E quando la guerra fu dichiarata nel 1792 si allearono con i nemici della Francia. Furono chiamati écervelé perché erano degli scapestrati, irresponsabili e impazienti. Crearono addirittura un loro esercito nel quale militò anche Chateaubriand. Così ho deciso di chiamare questo libro “Gli scervellati”, perché anche noi antifascisti, nel ’39-’40, eravamo per la Francia e l’Inghilterra e contro l’Italia e la Germania».

Ancora una volta in questo libro, come nei suoi precedenti, la memoria diventa uno strumento di conoscenza del reale. E’ così?
«Sì. Anche se la memoria cambia col tempo. Il mio atteggiamento nei confronti di quel periodo è molto mutato. Allora ero un fervente “scervellato”, adesso guardo a quegli anni con una certa ironia».

Sono tanti i ricordi che affiorano in questo romanzo. Ce n’è uno in particolare che rievoca più volentieri?
«E’ difficile dirlo. Il più drammatico di tutti, quello che più mi ha impressionato, fu la liberazione di Firenze, nell’agosto del 1944, episodio - non si sa perché - trascurato dalla storia. Durò un mese la lotta in territorio fiorentino contro i nazifascisti. Ci furono centinaia di morti e migliaia di feriti, combattenti ma anche civili, che morivano nelle cantine. Fu una grande tragedia. I partigiani si batterono con grande coraggio».

Il nostro Paese è molto cambiato rispetto a quegli anni. Oggi cosa resta di quell’Italia?
«Quell’Italia è difficilmente definibile, perché era divisa, essendo in corso una guerra civile. Quale Italia? La “nostra” Italia, antifascista, era certamente diversa da quella di oggi. Allora ci fu un vero momento di fervore liberale, democratico e sociale. Ci fu un entusiasmo che prese un po’ tutti quelli che avevano creduto che il fascismo fosse un regime da condannare e da eliminare».

Come ricorda gli anni del Regime?
«Il fascismo era un regime autoritario ma non totalitario, a differenza di quello stalinista o hitleriano. Era pieno di scetticismo e contraddizioni. Insomma era un regime pieno di crepe, che faceva acqua da tutte le parti. Lo si può ricordare senza quell’orrore con cui si ricorda lo stalinismo e l’hitlerismo».

In questo libro lei fa un ritratto lucido, addirittura spietato di se stesso. Non esita a confessare velleitarismi e incoerenze che ha vissuto. Una bella prova di coraggio e di onestà…
«Ho solo cercato di scrivere con la maggiore naturalezza possibile, senza irrigidimenti ed eccessi. Il “processo” a me stesso ho cominciato a farlo fin da allora».

In queste pagine sono tanti gli intellettuali di quegli anni che entrano ed escono di scena: da Montale a Gatto, da Carlo Levi e Giorgio Bassani. A chi si sente più legato?
«A tutti. Certo, volevo molto bene a Gatto che ammiravo molto, ma anche a Giorgio Bassani, Cassola e Laurenzi».

In questo libro lei rievoca anche l’incontro, durante gli anni in cui visse in Grecia, con Monsignor Roncalli, allora nunzio in Turchia. Che ricordo ha di lui?
«Non fu un incontro positivo, certamente per colpa mia. Non capii chi era lui, ma lui capì benissimo chi ero io: un giovane egoista e viziato, preoccupato soprattutto di se stesso. Mi congedò rapidamente. Il suo ottimismo mi scandalizzò e a volte mi irritò. Ripensandoci più tardi, ho capito da cosa nasceva questo suo sentimento: dall’essere un vero cristiano, che vede le cose in positivo, perché in fondo sa che c’è la redenzione, c’è la gioia. Io ero un malinconico e la malinconia non è certo una virtù cristiana».

A questo proposito, la dimensione della fede ha avuto un peso molto importante nella sua attività di scrittore, oltre che di uomo. E’ così?
«Certamente. Dieci anni fa decisi di smettere di scrivere e dissi, manzonianamente: “scriverò soltanto se riuscirò a parlare di altre cose”. E per altre cose intendevo un mondo illuminato dalla fede. Così è stato».

Lei ha vissuto in molti luoghi: dalla Versilia a New York, dalla Francia a Firenze. A quale si sente più legato?
«Senza dubbio la Versilia. Io sono nato a Bologna, ma ho vissuto fin da bambino lunghi periodi in questo luogo. Ho sempre sentito un legame viscerale con la Versilia. E’ un legame che non è più passato da allora, ed è il luogo che in assoluto preferisco al mondo, nonostante lo stato in cui oggi si trovi».

Tanti anni dedicati alla scrittura. Quando ha scoperto il suo talento di scrittore?
«La mia vocazione di scrittore è molto confusa, incerta. Comunque cominciai a scrivere nel ’36 e nel ’39 pubblicai il mio primo racconto su Frontespizio. Poi scoprii il giornalismo nel ’44 e in quel momento mi resi conto di avere una certa mano. Da allora ho alternato tre attività: l’insegnamento, la letteratura e il giornalismo».

Quanto il giornalismo è stato importante nel suo lavoro di scrittore?
«Il mio è stato sempre un giornalismo letterario. Questo mestiere ha avuto molta importanza, perché mi ha fatto capire che si scrive per gli altri e che bisogna essere all’altezza di chi ti legge. Mi ha insegnato la chiarezza, la semplicità e la trasparenza. Ed è stato un invito ad uscire un po’ da me stesso, a non compiacermi troppo dei miei difetti e delle mie virtù».


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